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Perplesso senza guida 4. Giustizia

Giustizia.

 

Tra le varie perplessità emergenti dall’attuale situazione politica in Israele, credo che una delle più rilevanti riguardi il problema del rapporto tra i tre poteri dello stato (esecutivo, legislativo e giudiziario), dal cui corretto bilanciamento dipenderebbe, come ci è stato insegnato, la salute della democrazia.

All’idea di fondo di questa tripartizione – delineata, com’è noto, nel Settecento – si sarebbero ispirate, in vario modo, almeno a parole, tutte le moderne democrazie, e anche i sistemi che democratici certamente non sono non ammettono mai (oltre al fatto di non essere democratici) di negare l’esistenza di questa divisione. Non esiste nessun dittatore al mondo che riconosca di farsi le leggi da sé e di processarsi da solo, o di scegliere da solo i giudici che dovranno giudicarlo. Impossibile dirlo, possibilissimo pensarlo e, spesso, anche farlo.

Qualcuno potrebbe dire che questa tripartizione è ormai roba vecchia e sorpassata. Ciò è abbastanza vero, per diversi motivi. Accanto ai tre poteri di Montesquieu se ne sono affermati altri, che, spesso, sopravanzano, e di molto, quelli del vecchio terzetto. Basti pensare all’informazione (detta, infatti, “quarto potere”), ai potentati economici, alle organizzazioni sovranazionali, ai partiti, alle istituzioni religiose (la cui influenza ci si era illusi di potere circoscrivere nel terreno meramente spirituale). Solo negli ultimi dieci o quindici anni la mappa dei poteri e della loro influenza è cambiata completamente: l’informazione, con l’arrivo dei social, si è trasformata in una galassia senza controllo, con miliardi di opinionisti che inondano il web di notizie di ogni tipo, vere e false, ma tutte ugualmente in grado di incidere sull’opinione pubblica mondiale. E ci sono dei super-ricchi il cui portafoglio vale, da solo, più di quello di qualche decina di stati poveri, e che giocano con la geopolitica come noi giochiamo a ramino. I famosi poteri, in questo quadro, sono ben più di tre, ed è davvero difficile capire chi è che davvero comanda.

Un’altra cosa da sottolineare, poi, è che la distinzione tra il potere legislativo e quello esecutivo si è andata, in molti Paesi, progressivamente assottigliando, fino, a volte, a sparire. L’idea illuministica, secondo cui le assemblee elettive dovrebbero dare fiducia a un esecutivo, per esercitare sullo stesso un vigile controllo, riservandosi, in qualsiasi momento, di sfiduciarlo, è diventata una chimera, nel momento che una maggioranza parlamentare appare in pratica un tutt’uno col governo in carica, e ognuno dei due vede la propria sopravvivenza legata a quella dell’altro. All’opposizione, più che il compito di vigilanza, appare riservato, in pratica, poco più di quello del lamento, o dell’impaziente attesa del proprio turno.

Intendiamoci. La stabilità di un governo, di per sé, è un elemento positivo, e nessuno nutre nostalgia per la stagione dei “governi balneari” dell’Italia degli anni ’60, che avevano il solo compito di preparare, durante le ferie estive, le successive, ennesime elezioni. Ma, proprio nel momento in cui il ruolo dell’opposizione appare sempre meno incisivo, tanto più emerge l’esigenza che l’esercizio del potere sia sottoposto a un controllo di legalità. Questo può essere esercitato, in pratica, solo da due poteri, quello dell’informazione e quello giudiziario, ma, tra i due, solo quest’ultimo può porre degli argini effettivi.

Inevitabile, a queto punto, del discorso, fronteggiare le consuete, inevitabili critiche contro la magistratura. Anche i giudici sbagliano, si obietta da parte dei politici (di destra e di sinistra) e dei loro sostenitori. Perché, se si possono criticare i politici, non si potrebbero criticare i giudici? Un’obiezione trita e ritrita, alla quale appare addirittura noioso replicare, tanta è l’ovvietà della replica. Certo che i giudici sbagliano. Certo che si possono criticare. Ma sostenere che sia “la magistratura”, nel suo complesso, a sbagliare, come se fosse un partito politico, appare senza senso, almeno nei Paesi nei quali i giudici sono dei giuristi vincitori di concorsi statali, nei quali non si chiede la tessera di partito. L’idea di depotenziare la magistratura nel suo insieme, per i presunti errori di un qualche magistrato, ha la stessa logica di una proposta di levare i bisturi a tutti i chirurghi, per evitare il rischio che, per sbaglio, facciano danno ai pazienti.

La convinzione che la magistratura, nel suo complesso, sia “di sinistra”, e impegnata, in quanto tale, a contrastare i politici “di destra”, inventandosi a loro carico falsi capi di accusa, è sconfortante. Lo è dovunque, ma soprattutto all’interno di una tradizione, come quella ebraica, che, da sempre, ha il suo perno essenziale nell’idea dello tzèdek, della giustizia. L’esigenza di istituire tribunali che operino secondo giustizia è uno dei sette precetti cd. “noachidi”, valevoli non solo per il popolo d’Israele, ma per l’intera umanità, l’unico, dei sette, ad avere un tenore positivo, di obbligo, e non di divieto. Ma, nella storia di Israele, il ruolo dei giudici e, più in generale, del giudizio morale sui governanti assume un ruolo di peculiare rilevanza. L’autorità di un potere politico è necessaria per la realizzazione della giustizia, e l’assenza dei re, nel libro dei Giudici, è descritta come una stagione di cupa e violenta anarchia, nella quale “ciascuno faceva quello che voleva” (17.6, 21.24), come nei Promessi sposi di Manzoni. Ma guai se è lo stesso re a fare quello che gli pare. Forse i giudici indeboliscono il potere del re? Il sovrano può fare quello che gli pare, non deve, non può essere giudicato? Il profeta Nathan è stato un giudice comunista che ha osato “legare le mani” al Re Davide?

Chi critica la magistratura (non, sia chiaro, la singola decisione di questo o quel giudice, cosa del tutto lecita) dovrebbe, forse, rispondere a una domanda preliminare: è la giustizia, lo ztzèdek, per caso, a essere “di sinistra”?

Francesco Lucrezi, giurista