LA QUESTIONE EBRAICA 47 Gli “esponenti”.
Nell’ultima puntata della nostra ricognizione sul grande libro di Emanuele Calò su La questione ebraica nella società postmoderna, abbiamo parlato dei modi spesso indiretti e obliqui che vengono adoperati per indicare gli ebrei, come, per esempio, l’espressione “di origine ebraica”, che sembra rinviare a una sorta di strana radice, lontana o prossima, vitale o essiccata, che comunque esiste, e che va ricordata.
Non è detto, sia chiaro, che chiunque adoperi questa espressione lo faccia con intenzioni malevole, ma certo non si sente mai definire un qualche personaggio pubblico come “di origine cristiana”. La stessa legislazione e giurisprudenza sulla privacy include la professione religiosa, al pari dei riferimenti alla salute, alle tendenze sessuali ecc., tra i cd. “dati sensibili”, davanti ai quali il diritto di cronaca si deve arrestare. Sono state gravemente lesive di tale normativa (che è innanzitutto un’elementare regola di civiltà), per esempio, le notizie date in pasto al pubblico sulle scatole di Viagra trovate nella casa del boss mafioso Matteo Messina Denaro. Naturalmente, se ciò fosse accaduto per un qualsiasi “colletto bianco”, ci sarebbe stata un’ondata di indignazione, ma, dato il personaggio, nessuno ha detto niente.
Altro caso significativo ricordato da Calò è quello dell’uso di definire “un ebreo purchessia quale esponente della comunità ebraica”. Senonché, osserva l’autore, “esponente, nella sua diffusa accezione, significa un rappresentante. Mentre il riferimento a un ebreo si esprime sovente quale esponente della Comunità ebraica, per contro, nessuno sosterrebbe che un cattolico, per il solo fatto della sua fede religiosa, sia un esponente della comunità dei cattolici”. Ciò, commenta Calò, potrebbe tanto lasciare trasparire l’idea, magari inconsapevole, di una sorta di “complicità di fondo fra gli ebrei, come se fossero diversi dagli altri esseri umani”, quanto fare pensare che “dire cattolico o protestante sia meno ‘antiestetico’ che dire ebreo”.
L’autore auspica, quindi, un definitivo ‘sdoganamento’ della parola “ebreo”, “senza inutili giri di parole. È in questo senso, per esempio, che è andata, su decisione e richiesta dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, il cambiamento della loro denominazione, sancito dalla Legge 8 marzo 1989, regolante la nuova Intesa tra l’Unione e lo Stato Italiano, che, all’art. 19, sancisce che l’Unione delle Comunità Israelitiche Italiane assume il nuovo nome di Unione delle Comunità Ebraiche Italiane”. Il termine israelita era stato prima preferito in quanto più “religioso”, e pertanto ritenuto meno esposto al pregiudizio, rispetto ad ebreo, e giustamente si è ritenuto di voler superare questa forma di cautela (anche se, ovviamente, ciò non è certo sufficiente a contrastare l’antisemitismo, che si indirizza contro gli ebrei indipendentemente dalle parole con cui vengono chiamati).
Ma, a proposito degli ebrei come “esponenti” di una data comunità, c’è un fenomeno molto grave che deve essere segnalato, relativo al tipo di informazione relativa allo stato d’Israele, largamente prevalente nel nostro Paese, e che produce profondi guasti sulla correttezza e l’onestà dell’informazione giornalistica, radiofonica e televisiva. Molto spesso, infatti, nei dibattiti sui problemi del Medio Oriente, sono invitati degli opinionisti ebrei (o, come abbiamo detto, “di origine ebraica”), che si segnalano per le loro critiche spesso feroci non solo verso l’attuale governo israeliano, ma, sovente, nei confronti dell’intero stato, della sua storia e ragion d’essere. Il diritto di critica, per carità, è sacrosanto, anche se esso non dovrebbe sfociare – come spesso accade – nella sistematica calunnia, criminalizzazione e falsità. Ci sarebbe anche una ovvia libertà di scegliere chi invitare a parlare, ma, per esempio, tra i vari partiti politici, l’informazione pubblica dovrebbe garantire un certo equilibrio nello spazio da dare a ciascuno di essi. Quando si parla di Israele, invece, vengono quasi sempre invitati a parlare commentatori fortemente critici nei suoi confronti. Qualche volta – abbastanza di rado – si sente anche qualche voce a difesa, ma il dato singolare è l’abnorme presenza di commentatori ebrei ipercritici. Dato l’esiguo numero di ebrei presenti nel nostro Paese (circa 30.000 su 60 milioni di abitanti) non ci si può non chiedere il motivo di questa ricorrente scelta. Questi commentatori (che non voglio unire in un unico calderone: alcuni li stimo, pur nel dissenso, qualcuno lo considero inqualificabile) non sono esponenti di nessuna Comunità ebraica, né, tanto meno, del governo di Israele o di qualche istituzione pubblica israeliana. Ma è inevitabile che, per la loro “origine ebraica”, vengano così percepiti dal pubblico, o almeno da una parte di esso.
Ed ecco che, nell’informazione su Israele, e solo per essa, viene realizzata una sorta di grottesca e abnorme “par condicio”, che vede il Pubblico Ministero (spesso più di uno) tuonare contro l’imputato, e uno stretto parente di questo (non si capisce se come ulteriore accusatore, parte civile o avvocato difensore) pronunciare, contro di lui, un’arringa ancora più dura e violenta.
Francesco Lucrezi, storico