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IL RITORNO. Yerushalmi e il “Mosè” di Freud

IL RITORNO

Yerushalmi e il “Mosè” di Freud

 

 

Ma quando faccio un enunciato intorno a Mosè, sono sempre disposto a sostituire “Mosè” con una qualsiasi di queste descrizioni? Potrei dire: per “Mosè” intendo l’uomo che ha fatto ciò che la Bibbia racconta di Mosè, o, almeno, ne ha fatto una buona parte. Ma quanto? Ho deciso quanto debba dimostrarsi falso, perché io abbandoni la mia proposizione come falsa? Il nome “Mosè” ha dunque, per me, un uso fisso inequivocabilmente determinato in tutti i casi possibili? Non accade piuttosto che io abbia, per così dire, tutta una serie di puntelli a mia disposizione e sia pronto ad appoggiarmi a uno quando mi viene sottratto l’altro, e viceversa?

Questa enigmatica domanda, formulata da Ludwig Wittgenstein (Ricerche filosofiche, 1953), viene posta in epigrafe alla nuova edizione italiana del libro di Yoseph Hayim Yerushalmi Il Mosè di Freud. Giudaismo terminabile e interminabile (Freud’s Moses: Judaism Terminable and Interminable), apparso per la prima volta, in lingua inglese nel 1990, riedito nel 1993 e ora pubblicato, tradotto in italiano da Gaspare Bona, dalla Giuntina, nella Collana “Schulim Vogelmann”, che raggiunge, con questo volume, il ragguardevole traguardo del numero 240.

Domanda, ovviamente, destinata a restare sempre risposta, come può testimoniare, nel suo piccolo, chi scrive queste righe, che ha appena dato alle stampe una silloge di propri saggi di argomento storico-giuridico, intitolata Quel che ha detto Mosè, dalle cui 1.240 pagine parrebbe emergere la risposta di fondo che tutti, a Mosè, hanno fatto dire ciò che si voleva far credere, in quel preciso contesto storico e geografico, che avesse detto. L’”uso fisso” di cui parla Wittgenstein, certamente, non esiste, e alle tante parole attribuite al profeta “legista e ubidiente” di Dante si accompagnerà sempre, come detto nel Mosè e Aronne di Arnold Schönberg, una parola mancante, una pagina bianca: “Parola, oh parola, che mi manchi!”.

Il volume di Yerushalmi (corredato di alcune preziose appendici, quali l’introduzione di Freud, in tedesco, al manoscritto di L’uomo Mosè e la religione monoteista, un testo in ebraico, con traduzione italiana, del padre di Freud, Jakob, del 1891, e una lettera dello scienziato a Theodor Herzl del 1902) ripropone al lettore il contenuto di alcune conferenze pronunciate, in vari contesti, sul celebre e controverso libro, terminato dal padre della psicanalisi nel 1934, poco prima di morire (aveva ormai 78 anni), nel momento – e Freud ne era ben consapevole e angosciato – in cui gli ebrei di Europa erano ormai stretti nella morsa mortale che avrebbe portato la maggioranza di loro al martirio.

Ed è proprio in quest’“ora più buia” che egli decide di scrivere un testo dal contenuto crudamente urticante, nel quale, proprio quando il suo popolo era sul punto di perdere tutto, anche la vita, viene ad esso levato anche quello in cui aveva sempre creduto, ossia che il suo cammino fosse iniziato grazie alla forza e alla visione dell’ebreo più grande di tutti i tempi, che avrebbe trasformato – con l’aiuto del Signore – una comunità di schiavi in una nazione di uomini liberi. Quell’ “ebreo più grande di tutti i tempi”, in realtà, non sarebbe mai esistito.

Freud era ben consapevole della profonda ferita che si accingeva a portare, soprattutto perché – come racconta Yerushalmi – fu scongiurato di non pubblicare il libro, in quei tempi terribili. Ammise, in una lettera al figlio Ernst, che immaginava che “gli ebrei si sarebbero molto offesi”, ma che non poteva “subordinare la verità a presunti interessi nazionali”. E, nel presentare il suo libro, scrisse che “non è impresa né gradevole né facile privare un popolo dell’uomo che esso celebra come il più grande dei suoi figli: tanto più quando si appartiene a quel popolo”. Ma la dolorosa impresa andava comunque realizzata.

D’altra parte, nota Yerushalmi, “offendere non era cosa nuova per Freud. Anzi, si ha l’impressione che il grado di offesa (leggi: resistenza) fosse da molto tempo diventato per lui uno dei criteri di verità”.

Il libro sul Giudaismo terminabile e interminabile rappresenta, fondamentalmente, un’interpretazione storica di questa ferita, di questa offesa, e anche, in una certa misura, una sorta di difesa della “spietata” scelta di Freud; o, almeno, un tentativo di capirne le ragioni, inquadrandola nella particolare storia personale del pensatore viennese.

Le intenzioni dell’autore sono esplicitate in quello che è definito un Preludio per l’ascoltatore: “ ‘Preludio’, invece che ‘introduzione’, perché in tutti i suoi aspetti più importanti l’opera deve presentarsi da sé cammin facendo; ‘ascoltatore’, invece che ‘lettore’, perché il testo è esattamente quello delle conferenze”.

“Ci si potrebbe stupire – annota l’autore – che un libro sull’‘Uomo Mosè e la religione monoteista’ sia scritto da uno storico noto finora come studioso degli ebrei sefarditi”.

I lettori, immagina lo studioso, potrebbero essere interessati a sapere come sia nato questo libro, e cerca di fornire una risposta, che appare molto “freudiana”: “Sicuramente esiste un groviglio di motivi inconsci, dei quali io stesso ho solo una nozione confusa, ma che potrebbero dipendere da una questione esistenziale, cioè dal fatto che sono stato figlio di un padre e sono a mia volta padre di un figlio”.

Di cosa tratta il libro? Esso è dedicato alla specifica biografia culturale di Freud, e alla fervida e tormentata temperie culturale del suo tempo. Tratta quindi, possiamo dire, di storia della cultura moderna; e tratta anche di psicanalisi, o meglio, dell’elevazione, da parte del pensatore, di tale forma di sapere a livello di “scienza” (perché, a mio avviso, a livello artistico e intuitivo, i suoi contenuti erano già presenti, per esempio, in Eschilo e Sofocle). Ma è anche importante dire di cosa esso non tratta: non tratta di storia di religioni antiche, e segnatamente di quelle dell’antico Israele e dell’antico Egitto, nonostante l’argomento del libro di Freud sembrerebbe rinviare proprio a queste tematiche. Ed è assolutamente normale che non ne parli, per il motivo che dirò tra breve.

Questo libro – afferma Yerushalmi – non vuole dimostrare che la psicanalisi è ‘ebraica’, anche se cerca di capire se Freud ne fosse convinto, il che è una questione assai diversa”.

E ancora: “Questo libro non vuole essere un’indagine né sulla vita né sull’identità ebraica di Freud, tranne che per alcuni aspetti fondamentali della ricerca del significato dell’‘Uomo Mosè e la religione monoteistica’… Questo libro non cerca di giungere a una conclusione su alcuno dei temi trattati, con due eccezioni: sostiene che Freud sentiva profondamente e intensamente l’identità e l’impegno ebraici e contesta qualsiasi interpretazione che veda nell’‘Uomo Mosè e la religione monoteistica’ un rifiuto di tale identità o anche solo un’ambivalenza nei suoi confronti. Anzi, uno degli scopi principali del libro è quello di riaprire alcune questioni riguardanti Freud che gli studiosi consideravano generalmente chiuse”.

Non è mia intenzione – aggiunge l’autore, quasi in forma di excusatio non petita – negare o sminuire la validità dell’esegesi psicoanalitica degli scritti di Freud, né, se è per questo, di alcun altro testo… Il fatto che, in un contesto ebraico, io sia giunto a una valutazione positiva delle intenzioni di Freud nell’‘Uomo Mosè e la religione monoteistica’ non significa necessariamente che condivida le sue idee sugli ebrei e sul giudaismo”.

E ancora, l’autore rivela di non avere alcun desiderio di “accaparrare Freud per un pantheon ebraico già sufficientemente affollato”, ammettendo di avere “tranquillamente ceduto Colombo all’Italia e Teresa d’Avila alla Spagna (nonostante avesse un nonno ebreo)”.

Un’intenzione, questa, che mi sento certamente di elogiare: lo sport di compilare e aggiornare la lista dei “grandi geni ebrei” della storia è uno sport, oltre che intrinsecamente insidioso, alquanto inutile e stucchevole.

L’autore fornisce molte notizie utili e preziose per valutare la maturazione dell’opera di Freud. Ci spiega, per esempio, che il manoscritto originale, datato 9 agosto 1934, era molto diverso dalla versione definitiva poi pubblicata. E che, nell’ideare il suo testo, Freud fu fortemente influenzato da un libro di Ernst Sellin del 1922, al quale avrebbe attinto a piene mani, Mose und seine Bedeutung für die Israelitisch-Jüdische Religionsgeschichte, le cui prime righe rinviano a una domanda radicale, analoga a quella di Wittgenstein: “Die letzte und wichstige Frage aller israelitisch-jüdischen Forschung wird immer bleiben: Wer war Mose?”: “La domanda finale e più importante di ogni ricerca sulla religione israelitico-giudaica sarà sempre: chi era Mosè?”.

Il contenuto del libro di Freud è ben noto, e solo per i più giovani lettori ne sintetizziamo le linee generali.

Il monoteismo non sarebbe stato una scoperta ebraica, ma egizia, introdotto come religione di stato da Amenofi IV, che avrebbe imposto il culto esclusivo del dio del sole, Aton, cambiandone il nome in Ikhnaton. Il faraone avrebbe anche rifiutato l’antropomorfismo, ogni forma di magia e stregoneria e ogni credenza di forme di vita dopo la morte. Questo nuovo culto sarebbe stato però rifiutato come una forma di eresia nei confronti della tradizionale religione egizia, e sarebbe stato presto dimenticato. Ma Mosè, un sacerdote o nobile egizio, fervente monoteista, volendo salvare il culto, si sarebbe messo a capo di una tribù semitica che viveva in Egitto, liberandola dalla schiavitù e creando una nuova nazione. Creò così una nuova religione monoteistica, ancora più spiritualizzata e priva di immagini di quella di Ikhnaton. Per distinguerne i seguaci dalle altre tribù, introdusse l’uso egizio della circoncisione. Ma la rozza massa di ex schiavi non sopportò il rigore della nuova fede, ribellandosi a Mosè e uccidendolo. Il ricordo di tale omicidio sarebbe stato rimosso, ma il dio di Mosè si sarebbe fuso poi col dio feroce e vulcanico di alcune tribù della terra di Madian, chiamato Yahwèh.

Mosè, dunque, non era ebreo, così come il monoteismo non è un’invenzione ebraica e il popolo ebraico non ha mai ricevuto alcuna elezione divina.

Diciamo subito che, come libro di storia, quello di Freud non vale assolutamente niente. Neanche il più sciatto dei professori lo approverebbe non dico come tesi di laurea, ma neanche come tesina sperimentale di primo anno di corso. Ma ciò non è certo una novità per gli scritti di Freud, il quale non ha mai mostrato il benché minimo interesse per la documentazione storiografica, la ricerca delle fonti, la loro analisi ecc. Tutte cose che dovevano apparirgli, evidentemente, del tutto inutili e noiose. Basti considerare le sesquipedali sciocchezze da lui scritte in Totem e tabù, che solo i più ingenui e sprovveduti tra gli antropologi hanno avuto l’ardire di utilizzare, in alcuni contesti, come una forma di “dottrina”. Freud le idee le inventava, e basta. Le sue verità non dovevano trovare altro fondamento che nel suo pensiero, meglio, nella sua fantasia.

Molte delle cose scritte nel libro non sono assolutamente delle novità. Yerushalmi ricorda che, nel 1789, Friedrich Schiller, uno dei poeti preferiti di Freud, scrisse un saggio minuzioso, ipotizzando che Mosè fosse figlio adottivo di una principessa egizia, e fosse stato iniziato a una religione misterica egizia puramente monoteistica, che successivamente avrebbe trasmesso agli ebrei. Ma, soprattutto, la discendenza egizia di Mosè è stata affermata da molti autori pagani, come Strabone, Manetone, Apione e Celso, ed è ampiamente provato che la trimillenaria religione egizia abbia conosciuto anche lunghe fasi di “enoteismo” (spesso confuso col monoteismo).

Ma, al di là di questi elementi (del cui vaglio storiografico Freud non si prende mai la minima cura), il racconto dello scienziato è frutto di pura fantasia, scritta con uno scopo puramente scandalistico e provocatorio.

Ma Yerushalmi non intende rivalutare Freud come storico (impresa oggettivamente impossibile), ma cogliere il senso del suo libro come cartina di tornasole della sua invenzione della psicanalisi.

Yerushalmi si presenta come “uno storico ebreo alla ricerca di un contesto storico più ampio”, e dichiara che il suo desiderio di occuparsi dell’Uomo Mosè nasce da un profondo interesse per le diverse modalità del moderno storicismo ebraico, cioè di quella ricerca del significato del giudaismo e dell’identità ebraica mediante un riesame senza precedenti del passato ebraico, determinata proprio da una rottura radicale con il passato. Il libro di Freud è un esempio tipico e allo stesso tempo personalissimo di questo fenomeno”.

La distruzione dell’idea dell’ebraicità di Mosè e dell’invenzione ebraica del monoteismo viene dall’autore inserita nel novero di alcune “dolorose umiliazioni che il narcisismo dell’umanità ha dovuto sopportare per scambiare l’illusione con la realtà”, umiliazioni che definisce “mazzate”: “la mazzata ‘cosmologica’ inferta da Copernico all’idea della centralità del nostro pianeta nell’universo; la mazzata ‘biologica’ di Darwin all’idea che l’uomo avesse un posto privilegiato nella gerarchia della creazione; e – più devastante di tutti – la mazzata ‘psicologica’ dello stesso Freud all’ultimo rifugio immaginato dall’uomo (L’Io non è padrone in casa propria)”. “Tutte e tre le umiliazioni – registra l’autore – furono registrate da Freud con truce soddisfazione, perché in ultima analisi non erano affatto umilianti: non s’era perso, ma guadagnato qualcosa”.

La cosa particolarmente interessante è che lo stesso Freud, in una lettera inviata a Stefan Zweig il 30 settembre 1934, ammette di volere spiegare le origini dell’identità ebraica, dimostrando che gli ebrei furono “creati” da Mosè, e di volere scrivere a tale scopo un’opera intitolata Der Mann Moses, ein historischer Roman: “L’uomo Mosè, un romanzo storico. Un romanzo, dunque, un’opera di fantasia. Ma, se era un romanzo, perché trasformarlo in un’opera di scienza (anzi, di pseudo-scienza)? Scrive Yerushalmi che “non stupisce che Freud abbia dovuto rivolgersi alla storia per risolvere i suoi enigmi ebraici”. In realtà, egli non si rivolge alla storia, scienza che non conosceva e non gli interessava, ma alla psicanalisi, la “sua” scienza, nella quale, avendola inventata lui, si sentiva “padrone a casa sua”, libero di dire qualsiasi cosa gli paresse.

Giunto alla fine della sua vita, secondo Yerushalmi, Freud avrebbe avvertito il desiderio di avvicinarsi alla sua “radice” ebraica, che egli, a modo suo, non aveva mai rinnegato.  Nel 1935, per esempio, scrisse a un esponente del Keren Ha-Yesod le seguenti parole: “So bene che questa fondazione si è trasformata in un grande e santo strumento nel tentativo di fondare una nuova patria nell’antica terra dei nostri padri. È il segno della nostra indistruttibile volontà di sopravvivere, che fino ad oggi ha sfidato duemila anni di dura oppressione! La nostra gioventù continuerà la lotta”.

Non è questa l’unica manifestazione di appartenenza al suo popolo, ma Yerushalmi nota che in genere Freud manifestava questi sentimenti sempre e solo privatamente, in lettere e conversazioni private, mentre la sua posizione pubblica era sempre quella di mostrarsi molto lontano non solo dalla religione dei padri (come da qualsiasi altra religione) ma anche dagli ideali nazionalistici ebraici.

L’anziano scienziato, comunque, privatamente (potremmo dire, quasi segretamente) si avvicina alla Bibbia. “L’integrazione freudiana della personalità ha bisogno del ritorno del rimosso per una migliore comprensione di sé stessi; successivamente il paziente non deve rinnegare il padre ma cercare di ristabilire un rapporto su un piano diverso”.

Ecco, così, che alla fine della sua esistenza, e solo allora, la psicanalisi di Freud, nota Yerushalmi “diventa ebraica”. Secondo l’autore, ciò rappresenterebbe una sorta di “ritorno a casa”, che il padre Yakob avrebbe verosimilmente apprezzato.

Possiamo condividere questa interpretazione? In fin dei conti, ogni padre, anche dopo la morte, riaccoglierebbe il figlio, qualsiasi figlio, a braccia aperte.

Ma fu davvero un “ritorno”? Freud non l’ha mai detto, e quindi direi che non tocca neanche a noi dirlo. A mio modesto avviso, come il pantheon dei “grandi ebrei” non ha bisogno di Freud, così la stessa psicanalisi non guadagna alcun titolo di nobiltà a essere classificata come una “scienza ebraica”, cosa che non è (a parte il fatto che le scienze, almeno loro, per fortuna, non hanno passaporto). E soprattutto, il grande scienziato non riceve personale gloria dalla scrittura della sua ultima opera, che, più che nociva o distruttiva, resta soprattutto un libro inutile.

(già pubblicato, in versione ridotta, su Moked. Pagine Ebraiche del 22/10/2024)

Francesco Lucrezi