Oggi pensavo che mi fosse difficile scrivere qualcosa, perché mia moglie ed io celebravamo il cinquantesimo anniversario di matrimonio, che mi ha assorbito un po’.
Ma poi due cose mi hanno fatto cambiare idea. Una è stata la ripetizione del matrimonio ebraico e l’altra l’argomento del libretto che ho scritto per l’occasione, il cui titolo è “Carne e latte: o l’una o l’altro”.
Per ogni ricorrenza (matrimoni, bar o bat mitzva di nipoti) ne ho scritto almeno uno, perché la mia vita, tra le tante cose che ho fatto, mi ha portato a sfiorare anche la professione di rabbino.
Innanzi tutto le famose sheva berachòt (sette benedizioni) e il brano “eshtechà: la tua sposa… è come una vigna…” sono un omaggio alla bellezza morale e materiale della donna, al rispetto che le è dovuto, in ogni momento della vita. Non si può non citare la Shira Shirìm (il cantico dei cantici) che è un inno alla donna e alla sua bellezza.
Tra le sette benedizioni si ricordano le prime tre coppie che sono alla base dell’ebraismo: Eva e Adamo, Sara ed Abramo, Rivkà e Isacco, Rachel e Lea, con Giacobbe che invocano la benedizione divina sulla coppia che sta per sposarsi.
Ricordando la prima coppia, prima di benedire il vino il pubblico risponde lehàim (alla vita), che riassume in sé l’essenza dell’ebraismo.
Il libretto di cui parlavo, invece, spiega come l’ebraismo (romano in particolare) vive di simboli che richiamano in ogni azione la Toràh.
Una frase tipica dell’ebraismo romano è “lò tevashèl ghedì bahalev immò: non cuocere il capretto nel latte di sua madre”, che viene vissuta col non mangiare carne e latte, conoscendo o no il perché di questo “uso” alimentare senza porsi altri problemi. Nel mio libretto, cerco di spiegare, invece, l’intrinseco significato che lega la frase ai riti di Purìm e Pèsach.
Forse, nei prossimi giorni pubblicherò il libretto stesso, naturalmente se ciò verrà ritenuto di interesse.
Quello che salta subito all’attenzione è che l’ebraismo, prima che una religione, è un modo di vita; quello che viene fatto per abitudine mira a far ricordare i precetti che la Toràh ci insegna e tra le cose che sono più evidenti e più sentite c’è l’amore per la vita.
Una vita che comincia col matrimonio e va avanti col crescere i figli e dare loro il senso dell’anima, che si muove insieme al corpo, nel quale non è costretta come in una prigione, ma convive in una simbiosi perfetta su questa terra e dopo, quando D. decreterà la fine, continuerà a vivere se su questa terra ci si è comportati secondo i precetti.
L’ebraismo non cerca martiri, non promette il Paradiso dove si troveranno in attesa uno stuolo di vergini, non è questo, l’ebraismo è un inno alla vita.
La donna ne è parte integrante, è l’altra metà del cielo, è quella che riempie la vita di fiori e di gioie e non va chiusa in uno scrigno, perché deve avere la sua individualità e la sua libertà.
Ecco, per non parlare d’altro, fermiamoci a questi due passi sui quali l’Ebraismo e l’Islam si scontrano e non possono trovare un punto di convergenza: l’Ebraismo piange la morte dei suoi nemici, mentre l’Islam la cerca.
Il non mangiare carne e latte per gli ebrei significa ricordare, innanzitutto, il dolore delle madri egiziane che vedono i loro figli rapiti dall’angelo della morte, perché il cuore del faraone è duro e arrido e non vede il dolore dei suoi sudditi.
In quell’occasione, nella Toràh è scritto: “non c’è casa in cui non si pianga un morto”. Esattamente come stiamo vedendo nella guerra di Gaza, dove i più alti ranghi di Hamas hanno più volte dichiarato che la morte dei civili gazawi è essenziale alla sconfitta del nemico.
C’è un altro serio problema ed è che le due religioni (ebraismo ed islam) sono “religioni rivelate” e ciò ne accentua lo scontro insanabile.
Ecco perché Israele accetta di scambiare una vita con un numero imprecisato di nemici; una vita salvata è come un bicchiere del Kiddùsh (benedizione del vino) benedetto a cui si risponde lehàim (alla vita).
Il contraltare è un nichilismo religioso che sta portando solo morte e distruzione.