Vai al contenuto

IMPROBABILI PANNI DEI GIUSTI

  • Opinioni

“Per quanto sembri paradossale” – riferisce Vivian a Cyril, in The decay of lying, di Oscar Wilde – “i paradossi sono sempre pericolosi, è comunque vero che la vita imita l’arte più di quanto l’arte imiti la vita”. Lo stesso Vivian concluderà, quando il racconto sarà in dirittura d’arrivo, che la rivelazione finale consiste in ciò che mentire, il fatto di raccontare belle cose non vere, è lo scopo primario dell’arte. Se accostassimo queste mistificazioni a un versante artistico, il rimando a Jeffrey Eugenides sarebbe inevitabile, con le sue vergini suicide, parenti strette de La casa de Bernarda Alba, di Federico García Lorca, che termina quando Bernarda proclama, dinanzi al suicidio di Adela: “Staccatela! Mia figlia è morta vergine”. Sempre in tema di mistificaziomi, da dove sarebbe scattato, tutt’ad un tratto, l’antisemitismo che porta un buontempone a demonizzare il Levitico, se non dall’arte della menzogna, con la sua fantastica capacità di cambiare finanche la geografia? Gaza, prigione a cielo aperto, aveva una frontiera con l’Egitto, che è magicamente scomparsa, e non è bastata la cronaca degli eventi tragici di Rafah per farla rinascere. Quattro improbabili aedi di Gaza, nel frattempo, danno sfoggio di innegabile talento, modellando ciascuno un romanzo, laddove vi era un saggio.

Ancora, i riferimenti al “suicidio” di Israele, sono passibili di diverse letture. Su i24 del 16 aprile 2024 Guy Ben Shimon, un superstite della strage del 7 ottobre 2023, riferisce che circa cinquanta superstiti si sarebbero tolti la vita. E questa è una lettura, ma non è la sola: come non collegare questa tragica trovata letteraria al suicidio collettivo di Massada ma, peggio/meglio ancora, alla macabra tesi del filosofo nazista Martin Heidegger, dell’auto annientamento del popolo ebraico? Ora, a prendere sul serio la tesi sul suicidio di Israele, sviluppando in modo appena decente il ragionamento, va a finire che chiunque volesse uccidere gli ebrei, colpirebbe un defunto (potenziale oppure in itinere) passando dalla categora di assassino a quella di birichino: forse bisognerebbe essere più maturi. “Ripeness is all” scrive Shakespeare in King Lear, anche se ce ne ricordiamo soltanto grazie alle riflessioni di Cesare Pavese, che di suicidi se ne intendeva, eppure il messaggio di congedo lo aveva copiato da Majakovskij.

Se Israele si suicida, anche i sei milioni di ebrei, per l’amante di Hannah Arendt, si sarebbero tolti la vita: molto comodo perché, in questo modo, ci si deresponsabilizza. Se si sostenesse che gli ebrei non vengono uccisi, ma si suicidano, i loro massacratori diventerebbero onesti lavoratori. a dimostrazione che la vita ripete l’arte che, a sua volta, si basa sull’inversione del reale. Le predette vittime del Nova Festival che si suicidano, secondo un’opinione irricevibile, lo farebbero per il rimorso di aver ballato a ridosso di Gaza. Gaza, la misera che bombarda da oltre vent’anni Israele e costruisce seicento chilometri di tunnel. Un altare pagano per il martirio dei suoi civili. In questo contesto, appena ci si cimenti in un ragionamento degno di quel nome, si capisce che perseverare nella tesi del suicidio degli ebrei e di Israele non ha nulla di anfibologico, ma è un volgarissimo topos che consiste nel dare la colpa alla vittima. T. W. Adorno è stato fra i primi ad accorgersi del “victim blaming”, evidenziando “l’argomentazione antisemita secondo cui “gli ebrei se la prendono sé stessi” dai loro sentimenti di inferiorità, dalla loro presunta ipersensibilità provocando le stesse reazioni di cui hanno paura. Anticipando questo modello, Wagner, dopo aver deliberatamente insultato il suo direttore d’orchestra del Parsifal, Hermann Levi, lo richiama rimproverandogli che “è proprio tuo modo cupo di vedere le cose che grava sui nostri rapporti con te.” Tali episodi rivelano il loro pieno significato solo cinquant’anni dopo la morte di Wagner: Hitler razionalizzò la sua prima violenta persecuzione degli ebrei, nel 1933, come azione difensiva contro quelle che scelse di chiamare atrocità delle storie diffuse dai rifugiati all’estero: Lo zar dovrebbe dare fuoco a San Pietroburgo con le proprie mani, trasferire prima la sua residenza di tutto a Odessa, e poi andare a Costantinopoli.” Tali affermazioni testimoniano l’esistenza di uno dei tratti sinistri del carattere fascista anche ai tempi di Wagner: la tendenza paranoica a proiettare sugli altri la propria violenta aggressività e poi incriminare, sulla base di questa proiezione, coloro ai quali attribuisce delle qualità perniciose” (Wagner, Nietzsche and Hitler, The Kenyon Review, vol. 9, no. 1, 1947, p. 158).

La vicenda gazawi è improntata ad un’arte fallace, che andrà a cesellare con procace improntitudine, una tragedia raccontata da tre cori opposti: quello degli odiatori, quello degli ebrei malati di crisi identitarie e di ambizioni malcelate, e, infine, quello delle vittime. Ed è solo un mesto paradosso che i tunnel dei terroristi finiscano per essere tutt’uno con l’inconscio profondo, un’inestricabile ed abietta unità, in un gioco di specchi dove la figura è sempre la stessa: l’impossibilità di incolpare la vittima senza prima celare sé stessi nei panni improbabili dei giusti.