L’accusa di deicidio, vecchia di oltre due millenni, si riaffaccia o, per meglio dire, si riallaccia alla nuova accusa di genocidio. Millenni addietro, il Vangelo (Matteo 27:25) estende l’accusa di deicidio a tutto il popolo; l’Enciclica Nostra Aetate (1965) saggiamente la restringe ai soli soggetti coinvolti. Tuttavia, è un’accusa strutturale, che mal sopporta gli interventi più illuminati, forse perché risale ai tempi primordiali, quelli cui accennava un ebreo, Sigmund Freud, quando si riferiva all’uccisione del capo nell’orda, di cui sarebbero rimaste tracce indelebili. Nel cennato capo, noi vediamo la Weltanschauung ebraica, dalla quale scaturiscono le altre due religioni monoteistiche. Un parricidio destinato a una ciclica ripetizione, a dispetto delle insidie storicistiche.
Un altro ebreo, Cristoforo Colombo, scopre (all’umanità allora conosciuta) un mondo fisico, l’America, così come Sigmund Freud interpreta un mondo ben più grande: quello dell’inconscio. Era stato preceduto dall’osservazione che “In tutto ciò che è materia di sentimento: religione, politica, morale, affezioni, antipatie, ecc., gli uomini più eminenti non superano che assai raramente il livello degli individui comuni. Tra un celebre matematico e il suo calzolaio può esistere un abisso sotto il rapporto intellettuale, ma dal punto di vista del carattere e delle credenze la differenza é spesso nulla o lievissima” (Gustave Le Bon, Psicologia delle folle, 1895).
La metafora del matematico e del calzolaio, potrebbe aiutarci a capire come alcuni docenti ai primi gradini del cursus honorum, nondimeno presi da sacro furore, riescano nell’impresa di vedere ovunque nei sionisti (ormai, un termine bon à tout faire per designare gli ebrei) i colpevoli di qualsiasi nefandezza, dimostrando come l’ossessione antisemita possa albergare anche negli studenti/studiosi, rendendoli schiavi di una nuova dipendenza. La risalente accusa di deicidio, viene ora surrogata da quella di genocidio, ed è impossibile non vedere a stregua di un’autentica beffa come la ricerca degli antisemiti di un capro espiatorio, abbia risalenti radici nelle scritture ebraiche, il che significa che no, non riescono proprio a liberarsene.
Un’invettiva recente così scandiva: “siete voi con le vostre infinite atrocità a fomentare la rabbia anti israeliana, che per vostra comodità definite senza ragione antisemita. Ma non avete, siccome ebrei, il diritto di uccidere liberamente e ovunque nel mondo”. Non si faticherebbe troppo a tracciare un itinerario che, convenzionalmente, prenda le mosse dall’accusa di: a) deicidio, si snodi lungo i secoli con l’accusa di b) crimini rituali – la c.d. accusa (o calunnia) del sangue – per sfociare nella incriminazione di c) genocidio. Sono accomunate, tutte, dallo stesso peso specifico: o tutte vere o tutte false.
Nel frattempo, si accresce il peso specificio del fattore J. Alberto Ronchey ebbe a coniare l’espressione “fattore k”, riferito a ciò che impediva al Partito Comunista di essere un partito come gli altri. Potremmo ipotizzare l’esistenza di un fattore J, tale da far smarrire l’equilibrio e finanche la ragione a chi, in presenza di termini come “ebreo” o “Israele”, costruisce dei mondi paralleli, attribuendo agli ebrei come singoli o come collettivo un significato che non ravviserebbe in nessun’altra circostanza. Un richiamo ancestrale, un parricidio virtuale oppure vagheggiato, una regressione ossessiva ma non necessariamente incurabile.