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LA QUESTIONE EBRAICA 44 Di origine ebraica

  • Opinioni

LA QUESTIONE EBRAICA 44 Di origine ebraica

 

Nel suo grande libro La questione ebraica nella società postmoderna, Emanuele Calò affronta una questione molto delicata e controversa, alla quale non si presta generalmente attenzione, ossia quella della definizione di un soggetto come “ebreo” o “di origine ebraica”. Le due espressioni, ovviamente, non sono sinonimiche, è evidente che la prima ha un valore molto più assertivo e perentorio sul piano identitario, mentre la seconda ha un senso evidentemente relativo, ipotetico, lascia uno spazio bianco in cui definire un’identità che resta, al momento, sospesa, incerta. Se uno è “di origine ebraica”, è evidente che poi, nel corso della sua vita, può avere preso altre strade, può essersi allontanato dalle sue origini. Anzi, implicitamente, si lascia intendere che un qualche allontanamento deve esserci stato, così come si capirebbe sentendo, di una certa persona, che “in origine, era eterosessuale”. Evidentemente, anche se non viene detto, col tempo, le cose devono essere cambiate. È questo che si capisce.

“Quando gli ebrei sono morti – scrive Calò -, sono ebrei e basta. Quando si tratta di ebrei di una certa importanza, preferibilmente vivi, ma anche morti, diventano d’origine ebraica”. Così, per esempio, “se si eseguono, per dire, dei brani di West Side Story, Leonard Bernstein diventa d’origine ebraica”. Anche Philip Roth “sarebbe ‘d’origine ebraica’, ma, sviluppando il ragionamento”, si dovrebbe “ammettere che anche i suoi genitori ed i suoi nonni e bisnonni lo fossero, fino a risalire ad Abramo. Non è male, anzi, definire un soggetto come ‘di origine ebraica’, perché così si evita di dire che è ebreo e, più precisamente: a) si lasci galleggiare a mezz’aria se sia ebreo e soprattutto b) non lo si offende attribuendogli la condizione di ebreo”.

“A sua volta – continua lo studioso -, chi scrive ‘di origine ebraica’ ammette che essere ebrei non sia una bella condizione e che, onde essere pietosi, la si ammanta di qualche lieve pecca genealogica, dissolta dal tempo. Questo, ad essere buoni, perché, ad esserlo di meno, salterebbe agli occhi che attribuire ai personaggi famosi un’origine ebraica è anche un modo di negarne l’ebraismo”.

Questa disquisizione potrebbe sembrare alquanto cavillosa, ma credo invece che abbia una notevole importanza, dal momento che tocca direttamente il problema essenziale della definizione dell’identità di una persona. Un problema che è doppio, perché bisogna distinguere l’identità in cui un soggetto si riconosce da quella che gli altri gli attribuiscono. Non è affatto detto, ovviamente, che le due cose coincidano. O meglio, ci sono alcuni dati identitari che hanno un valore oggettivo, e che, piaccia o non piaccia, non possono essere contestati. Chi è nato e cresciuto a Firenze è fiorentino: potrà autodefinirsi tale “natione, non moribus“, ma non potrà comunque modificare tale realtà. E lo stesso può dirsi per la collocazione cronologica di un soggetto, la data di nascita non si può cambiare, così come, tranne che in pochi casi particolari, il sesso. Ma l’identità umana ha anche – anzi, prevalentemente – un valore soggettivo, mutevole, essendo legata alle scelte personali, che sono rimesse al libero arbitrio del soggetto (intrecciato, ovviamente, con le circostanze esterne con cui egli si trova a confrontarsi). Innamorarsi, costruire delle amicizie, creare una famiglia, separarsi, praticare un lavoro, sposare delle idee politiche, seguire una fede religiosa o una certa ideologia, allontanarsene, cercare strade nuove. Sono scelte soggettive, di cui, piacciano o non piacciano, occorre solo prendere atto.

Ma allora, che vuol dire essere (o essere etichettato) “di origine ebraica”? La domanda si collega, ovviamente, alla domanda preliminare di cosa voglia dire “essere ebreo”. È un dato oggettivo o soggettivo? Una condizione o una scelta?

È facile rispondere che può essere entrambe le cose. Essere ebreo vuol dire appartenere a un dato popolo, il popolo ebraico, e/o professare una data religione, quella mosaica. Come per ogni religione, anche la fede ebraica può essere scelta, conservata, tramandata alle generazioni successive, così come abbandonata. Giuridicamente, chi è nato da madre ebrea è considerato ebreo, anche se non si senta più tale e abbandoni ogni tipo di osservanza rituale, a meno che non scelga di convertirsi a un’altra religione. In quel momento, cessa di essere ebreo e può comunque essere definito “di origine ebraica”. Si può anche usare questa espressione per indicare una persona che, pur nato da madre ebrea, e pur senza essersi mai convertito ad altra fede, dimostri comunque una sostanziale indifferenza verso l’ebraismo.

La cosa strana è che, come dice Calò, queste persone “di origine ebraica”, una volta morte, vengono generalmente “promosse” (o “degradate”) a “ebrei tout court”. E va anche sottolineato il dato di fatto che non si dice mai di qualcuno, per esempio, “di origini cristiane”. Senza dimenticare, poi, il fatto essenziale che le ideologie razziste del Novecento non diedero mai nessun rilievo alle scelte individuali. Le leggi razziali tedesche e italiane chiarirono in modo puntuale e preciso chi fosse ebreo e chi no.

Ma questa questione, seguendo l’analisi di Calò, merita di essere ancora approfondita.

Lo faremo nelle prossime puntate.

 

Francesco Lucrezi, storico