Vai al contenuto

LA QUESTIONE EBRAICA 42. Il gran rifiuto

LA QUESTIONE EBRAICA 42. Il gran rifiuto

Nel suo grande libro su La questione ebraica nella società postmoderna, come abbiamo visto, Emanuele Calò tratta, tra l’altro, del difficile e controverso rapporto tra la sinistra e gli ebrei, del quale abbiamo parlato anche nelle scorse puntate del nostro commento al volume (nelle quali abbiamo tracciato una distinzione tra una sinistra, radicale e massimalista, da sempre maggioritaria, naturaliter antiebraica, e un’altra, democratica, umanista e liberale, da sempre minoritaria, naturaliter simpatizzante per i valori dell’ebraismo, anzi, dagli stessi nutrita e alimentata).

Tra gli innumerevoli segnali di questo pregiudizio antiebraico, Calò menziona un episodio molto significativo, che merita di essere ricordato, ossia una scelta dell’Editrice Einaudi (nel dopoguerra, così come per molti anni successivi, com’è noto, espressione diretta della cultura politica facente riferimento al PCI).

“L’elisione della tragedia ebraica – scrive l’autore – visse un capitolo imbarazzante quando la casa editrice Einaudi oppose due rifiuti, nel 1947 e nel 1952, alla pubblicazione del libro Se questo è un uomo di Primo Levi, un capolavoro assoluto, che pubblicò con Einaudi nel 1958, che forse si decise a stamparlo dopo che Italo Calvino lo definì come ‘un libro magnifico, destinato a restare nella memoria collettiva come uno dei capolavori della letteratura sulla guerra mondiale’”.

Come mai questo capolavoro andò incontro a un “gran rifiuto”? Anzi, come abbiamo visto, due?

“Possiamo ipotizzare – scrive Calò -, al riguardo, che la connotazione ‘ebraico’ o ‘ebraismo’ non rientrasse né in seno ai codici culturali né, soprattutto, nell’ambito delle classificazioni marxiste. In effetti, gli ebrei, così diversi fra loro, facevano fatica ad essere incasellati nei moduli in uso: popolo, nazione, Stato, etnia, classe, religione”. “Negli anni cinquanta e primi anni sessanta – continua l’autore -, la sinistra italiana denota: a) una palese ritrosia nel riferirsi all’Olocausto menzionando la parola “ebreo”; b) una certa ostilità nei riguardi di Israele. Il primo punto sarà superato col tempo, il secondo si aggraverà (e diventerà endemico) dopo la Guerra dei Sei Giorni del 1967”.

Entrambe le annotazioni sono inconfutabili. Nei primi anni dopo la fine della guerra, il mondo comunista, su input principale dell’epicentro moscovita, come già ricordato nelle precedenti puntate, cercò di ignorare o minimizzare la Shoah, soprattutto negando o minimizzando la sua principale motivazione, ossia l’ossessivo e morboso antisemitismo nazista: ammettere che essa avesse avuto una fondamentale causa scatenante nell’odio antiebraico avrebbe fatto saltare la tradizionale visione dell’antifascismo come “lotta di classe”, e avrebbe urtato col dato di fatto che anche lo stalinismo era fortemente antisemita. Quel che è accaduto dopo il 1967 (e che maturava già da prima), poi, è ben noto, e avremo modo di tornarci.

Il doppio rifiuto della casa grande casa editrice di sinistra di pubblicare lo straordinario diario di Primo Levi si inserirebbe dunque in questa “ritrosia” di fondo. Tra coloro che espressero parere negativo ci furono Natalia Ginzburg e Cesare Pavese, anche se non mi sembra il caso di accusarli di qualcosa giudicando col cd. “senno di poi”. In fin dei conti, tanti scritti di valore vengono rifiutati da tante case editrici, così come vengono pubblicate tante opere di scarsissimo livello e interesse. I meccanismi di selezione alla base del mercato editoriale sono sempre stati opinabili e opachi, e ciò è stato ed è un serio problema non solo per la cultura del Paese, ma anche per la stessa democrazia (soprattutto in un Paese come l’Italia, segnato da una forte concentrazione della grande editoria in due sole grandi città del nord, Milano e Torino [proprio la città di Levi]).

Ma il caso di Se questo un uomo non è isolato: la voce dei sopravvissuti faceva molta fatica ad essere ascoltata, e le resistenze non venivano solo da sinistra: anche il mondo cattolico non voleva sentire parlare di un martirio le cui radici affondavano inequivocabilmente in due millenni di diffusione di una teologia del disprezzo e della sostituzione. Il vero “silenzio” di Pio XII non è tanto stato quello degli anni ’39-45, ma quello dei successivi ’45-58 (l’anno della sua morte), interamente dedicati alla continua e martellante campagna anticomunista, senza mai menzionare una sola volta la parola “Olocausto” (e menzionando la parola “antisemitismo”, accanto a diverse altre, a quanto mi risulta, una sola volta, in un discorso del 1951).

In generale, si può dire che la memoria della Shoah ha contraddetto la legge basilare del tempo, che cancella i ricordi più antichi, per fare spazio a quelli più recenti. È una memoria che ha fatto un cammino inverso, emergendo dal buio di una diffusa rimozione, per poi affiorare ed emergere (ma solo nel mondo occidentale, e sempre in modo assolutamente parziale) decenni dopo (il libro di Levi fu uno dei primissimi a essere pubblicato, in tutta Europa). E oggi, com’è noto, questa memoria torna a dare molto fastidio, come dimostrano i tanti ignobili tentativi di deturparla e deformarla (è di questi ultimi giorni il vile oltraggio – di cui si è parlato anche sulle colonne di questo Osservatorio – portato alla persona di Anna Frank, simbolo del massacro del popolo ebraico trasformato in incitazione a un odio rinnovato).

La voce di Primo Levi è stata una sfida non soltanto a un passato inenarrabile, ma anche a un presente tenebroso e crudele. Egli ne fu ben consapevole, tanto che – come ho scritto in un mio libretto, scritto nel 2005, La parola di Hurbinek, dedicato alla sua tragica morte – il gesto dell’11 aprile 1987 va interpretato anch’esso come una parola: la più importante, in quanto la sua “ultima parola”.

 

Francesco Lucrezi, storico

 

(continua)