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Perplesso senza guida 2

Tristezza

Nel commentare l’esito di una tornata elettorale occorrerebbe in primo luogo intendersi su due cose:

In primo luogo, se le elezioni possano essere considerate regolari e credibili, e quindi il loro risultato debba essere serenamente accettato.

In secondo luogo, quale si ritiene che sia il loro significato, ossia quali debbano e possano essere le loro conseguenze, e quali siano, invece, le cose che non dovrebbero mai essere condizionate, di regola, dal loro esito.

Rimandando a una prossima occasione il secondo problema, cerchiamo di esaminare il primo punto.

Riguardo a tale questione, va detto che la regolarità delle elezioni dipende da due condizioni distinte. La prima è che il voto sia stato libero e segreto, che non ci siano state violenze o minacce e che il conteggio sia stato trasparente e regolare. Ci sarebbe poi da interrogarsi sul sistema elettorale, e sulla sua capacità di coniugare il rispetto della volontà popolare con le comprensibili esigenze di governabilità e stabilità, ma questa è un’altra questione. La seconda è l’adeguata istruzione e informazione del corpo elettorale. Dove non c’è istruzione, se non in modo limitato e approssimativo, è abbastanza inutile andare a votare, così come lo è laddove l’informazione è limitata e il pluralismo è assente o relativo.

Su questo piano, le recenti elezioni in Israele non prestano il fianco ad alcun dubbio: il voto è stato assolutamente regolare, non ci sono state intimidazioni di sorta e gli elettori, dopo anni di perenne campagna elettorale, erano fin troppo informati. E, infatti, non ci sono state contestazioni di sorta. Il loro esito va accettato. Il popolo sovrano si è espresso liberamente, e la sua volontà va rispettata.

Ma, come il popolo è libero di votare come gli pare, naturalmente, anche qualsiasi osservatore, israeliano o no, è libero di commentare il voto come crede.

Giudicare un esito elettorale non è mai facile, perché si tratta di mettersi nella testa di milioni di persone, le quali non si identificano certo completamente con i partiti a cui hanno dato il loro sostegno. Se, per esempio, c’è un partito che usa un linguaggio xenofobo, ma promette di aumentare la sicurezza, e un elettore crede a questa promessa, può darsi che gli dia il suo suffragio pur non apprezzandone il linguaggio, ma solo perché per lui la questione della sicurezza è prevalente. Se questo accade, non significa quindi automaticamente che questi elettori siano xenofobi, ma certo vuol dire che la questione dei diritti civili da loro non è particolarmente sentita.

Un discorso analogo vale per l’esito delle recenti elezioni italiane. Io credo che, nella grande maggioranza, gli elettori del partito uscito vincitore non siano nostalgici del fascismo, ma, certamente, non hanno in grande considerazione i valori della Costituzione repubblicana. Non che li contrastino, ma semplicemente non importa loro granché della storia della nascita della nostra Repubblica e di ciò che essa significa. Quanti elettori di quel partito hanno a casa una collezione di busti del Duce? Io credo quasi nessuno. E ciò aumenta la tristezza per il fatto che, per l’elezione della seconda carica dello Stato, sia stato scelto proprio uno di quei pochissimi. Ma tant’è.

È davvero difficile dire quanti elettori israeliani dei partiti dell’estremismo religioso abbiano pulsioni violente o razziste, e quanti, semplicemente, non si importino di violenza e razzismo. In ogni caso, si tratta di un dato triste.

Ma la cosa ancora più triste, secondo me, è che gli elettori di destra ‘normali’ non mostrino alcun imbarazzo ad accompagnarsi a loro. In Germania, per esempio, nelle penultime elezioni, la CDU-CSU non è mai stata neanche sfiorata dalla tentazione di fare un’alleanza con AfD, pur di evitare di fare la Grosse Koalition con i socialisti, e lo stesso è accaduto in Francia per i partiti conservatori nei confronti del Rassemblement National. In Israele no. Peccato. Un’altra considerazione triste.

Credo che un elemento molto significativo dell’esito delle elezioni in Israele sia stato un diffuso sentimento mondiale di protesta e avversione – talora con venature di rabbia e livore, se non vero e proprio odio – nei confronti delle cd. ‘élite’. Non ho mai capito bene cosa si intenda con questa espressione. Non credo che gli elitari siano i ricchi, perché tra i sobillatori della rivolta contro di loro figurano personaggi come, per esempio, Berlusconi, Trump o Musk, che non mi sembrano esattamente dei proletari. Forse sono quelli che sono andati un po’ scuola, che hanno preso uno straccio di diploma, che non dicono troppe parolacce, che azzeccano i congiuntivi, non so.

Fatto sta che le élite sono state elette in massa a irriducibili nemiche del popolo, accaparratrici di odiosi privilegi, grondanti snobismo, superbia, iattanza. Ovviamente sono tutte di sinistra, di estrema sinistra, anzi, tutte di comunisti, per cui la loro vittima (finalmente sollevatasi), il ‘popolo’ (concetto che, se ben ricordo, era una volta di sinistra), non può non essere ‘ontologicamente’ di destra. Non si tratta di scegliere, ma di essere. Le élite sono quello che sono, e il popolo è quello che è.

E le élite non si possono difendere, perché chi lo fa, ovviamente, vi appartiene. Io non le difenderei mai. Dio ne scampi. Meritano la triste fine che hanno fatto.

Non posso, quindi, in questo caso, dirmi, di nuovo, triste, perché ammetterei di essere quello che evidentemente sono, un elitario.

Francesco Lucrezim, storico