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Kafka e i filosofi

Kafka e i filosofi

Frutto della rielaborazione di lezioni che Carmelo Colangelo ha proposto in occasione di un ciclo dedicato al tema del male nella ricezione filosofica dell’opera kafkiana, questo libro è il terzo di una collana intitolata “i saggi del cuore”; collana delle edizioni d’if di Nietta Caridei che è già un piccolo classico nel campo di una «critica appassionata che, se non conosce altro lavoro che non sia quello sul testo, nondimeno non saprebbe come altro onorarlo se non riprendendo la strada maestra della sua narrazione» (si legge nel risvolto di copertina).

Una rotonda sul male arriva dopo i saggi su Gadda e su Joyce di Gabriele Frasca, che hanno ben inaugurato

la sequenza, e viene non solo a testimoniare – ci dice l’autore nell’”avvertenza” – «la disponibilità di

pensatori e critici a lasciarsi imbarazzare dalla produzione dello scrittore praghese», ma anche per offrire ai

lettori, sottotraccia, «indicazioni sui modi attraverso cui l’intenzionalità filosofica contemporanea,

lasciandosi alle spalle le stabilizzazioni morali tradizionali, ha individuato materiali in grado di favorire

un’invenzione etica all’altezza degli enigmi del presente».

L’autore insegna Etica e non poteva non imbattersi nel «più grande moralista del Novecento» (Baioni). Già

gli esergo posti a sentinella del libro pulsano quali sistole e diastole del motore circolatorio dell’opera

kafkiana: per primo, il Sebald de “Gli anelli di Saturno”, colto lì dove sancisce che Descartes, «scrivendo uno

dei più importanti capitoli della storia della sottomissione», insegna che è necessario distogliere lo sguardo

dalla carne, «in quanto incomprensibile», per rivolgerlo alla macchina, «già installata in noi, ovvero a ciò

che si può senz’altro comprendere»; per secondo, il famoso passo dei Diari in cui Kafka descrive il sentimento che prova il giovane che si sa perduto e tuttavia si rallegra fino «alla gioia, alle lacrime» nell’assistere all’arrivo dei soccorritori.

Il primo esergo ci dice ciò che Kafka fa: raccontare l’umano guardando alla macchina. Avendo però egli

scelto di raccontare ciò che vede con gli strumenti della letteratura, che non illustra ed esplica ma piuttosto

rivela l’inesplicabile opacità di ciò che si mostra come figura, non può che vestire, nelle sue narrazioni, il

comprensibile con l’incomprensibile: Kafka dunque lascia al palo Descartes, completa il giro e riveste di

carne la macchina.

Il secondo esergo ci dice lo sdoppiamento del soggetto che si vuole scrittorio in un’entità che è insieme

l’«uno» che è perduto e «l’osservatore» che «non si rallegra perché viene salvato – non viene punto salvato

– bensì perché arrivano altri giovani fiduciosi, pronti alla lotta, ignari di certo di ciò che si prepara»; e

ancora ci dice il terzo soggetto che con tale entità duplice entra in relazione, costituito dai “giovani

fiduciosi” che arrivano in soccorso. La triplice polarità di questo passo pare alludere, ma con una curiosa

inversione e dunque rovesciandone gli assunti, ad un altro passo dei Diari riportato a p.73 del saggio, lì dove leggiamo «della verità di chi agisce e della verità di chi riposa. Nella prima il bene si distingue dal male; la seconda non è altro che il bene stesso e ignora sia il bene che il male. La prima verità ci è concessa

realmente, la seconda possiamo solo intuirla». La condizione umana è infatti da iscrivere, nella lettura di

Kafka del Genesi, «nella situazione di colpevolezza senza colpa in cui […] gli uomini sono posti dalla

macchia della violazione edenica» (p.69).

Colangelo rileva che «il luogo del testo veterotestamentario che più suscita l’interesse dello scrittore è il riferimento alla presenza nel giardino edenico di due alberi: non solo l’albero della conoscenza del bene e del male, oggetto dell’esplicito interdetto divino, ma anche l’albero della vita (Genesi 2 e 9)». A proposito degli alberi, Kafka scrive: «Perché ci lamentiamo del peccato originale? Non è per colpa sua se siamo stati cacciati dal paradiso terrestre, bensì a causa dell’albero della vita, affinché non ne mangiassimo i frutti» (p.70). L’uomo è stato allontanato da Dio non perché ha mangiato il frutto della conoscenza: tale gesto lo ha infatti avvicinato al creatore; la vera separazione è effetto dell’impossibilità di assaggiare l’albero della vita, di abitare “la verità di chi riposa” che noi, tenutari della “verità di chi agisce”, possiamo solo intuire. Di quale verità sono dunque tenutari i giovani fiduciosi che arrivano a salvare chi non può essere salvato? Essi sono ignari, e dunque dovrebbero abitare la verità che riposa: ma non si riposano affatto, al contrario s’industriano. L’entità uno-osservatore, invece, è consapevole del male irrimediabile, e pertanto sarebbe da ascrivere nel novero dei tenutari della verità che agisce: ma l’entità agisce anch’essa in modo contrario a come ci si aspetterebbe: assiste all’arrivo dei suoi inconsapevoli “salvatori” in posizione di riposo.

Che ci dice, dunque, questo esergo, a proposito delle due verità? Ci dice che entrambe sono inesatte e

insieme esatte, proprio come le due profezie che arrivano ad Adamo da Dio: «il giorno in cui ne mangiassi

[dell’albero della conoscenza], di certo moriresti» (Genesi 2 e 7), e dal serpente: «Dio sa che il giorno in cui

voi ne mangerete vi si apriranno gli occhi e sarete come Dio» (Genesi 3 e 5). Inesatte perché «gli uomini

non morirono, ma divennero mortali, e non diventarono simili a Dio ma acquistarono una indispensabile

facoltà di divenirlo»; esatte perché «non morì l’uomo, ma l’uomo paradisiaco; essi non diventarono Dio ma

acquistarono la scienza divina».

Così si spiega la curiosa inversione di cui si diceva a proposito del secondo esergo: nell’allusione «alla condanna ad una vita senza vita» (p.72) e insieme ad una morte senza morte: «La condanna divina alla mortalità consisterebbe nel non consentire altra vita umana se non quella legata all’obbligo per la specie di ripetere i gesti gravosi – insensati nella loro continua ripetizione – attraverso cui essa provvede alla propria sussistenza» (p.73). Assunti rovesciati, dunque, come bicchieri di esistenza sopportabile svuotati nella brocca inaccogliente della letteratura (o anche negazione del piacere per il piacere superiore dell’ubbidienza al diniego superegotico, direbbero i freudiani. Ma Kafka, che ha letto l’opera di

Freud e non si è appassionato, considera la terapia analitica un errore, e in generale la passione per la

malattia [a causa della malattia e in sua devozione] un’inaccettabile forma di dipendenza materna) (patire il

Padre è invece altra faccenda).

Nel libro, Colangelo si sofferma su quanto hanno detto intorno al praghese e al suo lascito Benjamin e

Adorno, Blanchot e Sartre, Bataille, Canetti, Camus, Arendt, Deleuze e Guattari, Barthes, Starobinski,

Fortini, Lacan; allo svariato intreccio di tali riflessioni aggiunge, di suo, il bisturi implacabile di

un’interrogazione che affonda nei racconti e nei romanzi, nelle Confessioni e diari, nelle Lettere, nelle

Relazioni; e non c’è dubbio che leggere questa Rotonda sia estremamente nutriente per quanti siano

interessati alla storia del pensiero nel “Siècle de Kafka”. Un lettore di poesia come chi scrive, poi, una volta

affrontatolo, non riesce quasi più a separarsene, da questo libro azzurrino come sangue venoso in risalita

verso un cuore (non a caso la collana si chiama come si chiama): per aderenza e affetto al suo soggetto, è

lineare e vertiginoso, opacamente luminoso e appetitosamente indigesto come la poesia stessa, peraltro mai nominata. «…Non so, / chi mi parla, che cosa? come? / dove o quando? Non è dunque / nulla l’amore?

Oppure tutto? / Acqua? Fuoco? Bene? / Male? Vita? Morte?» scrive W.G.Sebald nel poema Secondo natura, qui nella traduzione di Ada Vigliani.

 

Eugenio Lucrezi, medico e pubblicista

 

(l’articolo riprende, con poche modifiche, una recensione al libro di Carmelo Colangelo “Una rotonda sul male. Kafka allo specchio dei filosofi”, d’if, Napoli 2014, pubblicata il 17 agosto 2015 su Nazione Indiana).